Le multinazionali buone?
di Benedetta Frare
(TransFair Italia)
Le dichiarazioni etiche delle multinazionali non servono a riscattare la globalizzazione selvaggia. Duecento aziende in tutta Europa rispondono allo sfruttamento del Sud del mondo con il commercio equo e solidale
In occasione del G8, accanto alle notizie sui presunti “terroristi” del popolo di Seattle, si moltiplicano gli articoli, direttamente o indirettamente riferiti ai comportamenti della multinazionali: che in quest’ultimo periodo si stanno prodigando nella sottoscrizione di codici di condotta, indici e parametri “etici”, di controllo fornitori o di riduzione dell’impatto ambientale. Aziende che dicono di voler inseguire anche lo sviluppo sociale perché offrono in beneficenza parte degli utili. L’ultimo, il servizio che un quotidiano italiano ha dedicato a una multinazionale convertita al sociale, la cui nuova mission è diventata: “vogliamo creare il benessere di tutti i consumatori, sia del Nord che del Sud del mondo”.
Peccato che, in questi servizi sulle multinazionali buone (guarda caso, proprio in vista del G8 e delle manifestazioni dei movimenti che si battono contro le distorsioni della globalizzazione), manchi un elemento fondamentale che, probabilmente, in questa bufera di buonismo, viene inevitabilmente a perdersi. In questi articoli infatti, l’accento viene posto sul prodotto (queste aziende non producono armi, non producono sostanze nocive per l’uomo o per l’ambiente), ma non sul processo: cioè sul lavoro di quelle migliaia di persone invisibili che dai massimi sistemi dei codici di auto condotta non sono toccati, semplicemente, non si parla. In sostanza, le multinazionali dell’etica, parlano dei prodotti ma non delle condizioni in cui sono lavorati; non parlano dei salari con cui sono pagati i lavoratori nelle catene di sfruttamento dell’appalto del subappalto; non parlano di condizioni sindacali minime garantite, compreso un ambiente dignitoso. Processi molto lunghi e complessi da cambiare, troppo lenti per un sistema in cui anche le dichiarazioni etiche possono far parte del marketing: il consumatore vuole prodotti più puliti? Ecco che l’azienda dichiara di non inquinare l’ambiente. Il consumatore non vuole vedere le scarpe cucite dai bambini? E la multinazionale dello sport dichiara di non impiegare minori nei propri laboratori. Il consumatore si tranquillizza, fino al prossimo allarme sociale.
Dichiarare e far controllare da terzi che invece i propri lavoratori vengono pagati in maniera “equa”, significa in parte sconfessare i criteri su cui si fonda il proprio profitto. Si prenda ad esempio lo sfruttamento del lavoro: lì dove posso comprare il mio pacchetto di caffè a 1500 lire, venderlo sul mercato al doppio e pagarlo al contadino che lo lavora 300 lire. Un mercato selvaggio, quello del caffè, di cui proprio la stessa multinazionale di cui parlava il servizio, autoproclamatasi paladina delle aziende “pulite”, è uno dei quattro colossi a livello mondiale, ovvero una delle quattro potenze che decide quanto e come deve venire acquistato il caffè.
C’è un altro cammino di “conversione” lento e difficile che in silenzio, senza tanti articoli, e fuori dall’attenzione che il G8 sta provocando, un gruppo di piccole e medie aziende che hanno scelto il marchio di commercio equo e solidale stanno percorrendo. Perché il marchio TransFair è un marchio che impegna non solo in formali dichiarazioni di valore: impegna a comprare direttamente dai piccoli produttori di Africa, Asia e America Latina; impegna ad anticipare il pagamento della merce, per favorire gli investimenti; impegna a rapporti contrattuali di medio periodo perché questi piccoli produttori hanno bisogno di poter contare su entrate sicure; impegna chi compra a pagare il “giusto” e il giusto non è solo quello che serve a retribuire dignitosamente chi, nelle piantagioni di cacao, caffè, tè o tra i filari di arance suda ogni giorno, ma anche per generare benessere sociale e garantire i servizi di uno Stato che non c’è. Far indossare quel marchio a un determinato prodotto, nasconde dunque una serie di fatti che, a piccoli passi e senza faraonici investimenti, stanno cambiando il modo di fare la spesa di milioni di consumatori in tutta Europa e il comportamento, il modo di “fare mercato”, di decine di aziende. In cinque anni, dal 1995 al 2000, le aziende che hanno scelto il commercio equo e solidale in Italia sono cresciute da due a ventidue; e in tutta Europa sono 200 le imprese che hanno scelto il prodotto equo per il suo alto valore sociale, senza altre dichiarazioni di intenti ma costruendo il loro lavoro accanto a quello di migliaia di produttori del Sud del mondo.