Le parole sono
importanti
Address to the executive
committee of the World Alliance
Di
Susan George
(traduzione di Roberto Bosio)
"Globalizzazione" è una parola trappola. Figura nel
titolo d'innumerevoli conferenze e dibattiti e la utilizziamo tutti
senza spirito critico. Diventiamo così vittime di un'impresa ideologica
ben riuscita. Questa parola da l'impressione che tutti gli uomini - e
tutte le donne -, di tutte le classi sociali, di tutti i Paesi del
pianeta siano uniti in un solo movimento, che marcia verso qualche Terra
Promessa.
E' esattamente il contrario. La
parola "Globalizzazione" maschera la realtà, è una parola
che designa in effetti un'esclusione necessaria e sistematica. Non è
una marcia dell'umanità verso un avvenire radioso: permette al
contrario all'economia mondiale di prendere il meglio e di mollare il
resto (è meglio in inglese: To take the best and leave the rest).
Così tutti gli individui, tutte
le imprese, tutti i Paesi sono in concorrenza, gli uni con gli altri,
mentre regioni intere, come la maggior parte dell'Africa, e immense
regioni dell'Asia e dell'America Latina - ma anche del Nord del mondo -
restano completamente escluse dal sistema.
Anche nelle regioni più
sviluppate, gli individui possono essere espulsi dal sistema in ogni
momento. Voglio difendere questo punto di vista tra un istante - per il
momento diciamo che intendo con la parola "globalizzazione" il
modello economico neo-liberale applicato all'insieme del globo. E' molto
più che l'estensione del commercio, o l'intensificazione degli scambi e
dei movimenti di capitali che il mondo ha conosciuto durante l'Impero
Romano, o almeno nel Rinascimento con i banchieri fiorentini.
Questo modello è stato reso
possibile da tre fenomeni - non dico che è stato causato, ma solamente
reso possibile -:
-
tecnologicamente, dalla
rivoluzione informatica, che permette la circolazione in tempo reale
d'informazioni a un costo vicino allo zero;
-
economicamente, da una
riduzione rapida e radicale dei costi del capitale e del trasporto,
che rendono possibile all'impresa moderna di produrre e assemblare
dovunque;
-
politicamente - ed è la
cosa più importante - dalla caduta del Muro di Berlino e
dall'assenza di concorrenti politici e ideologici per il
capitalismo. Non c'è che un solo "iperpotere", per cui
non c'è più un "dibattito di sistema". Durante tutto il
periodo della guerra fredda, l'Occidente era obbligato a mantenere
il suo Aiuto Pubblico allo Sviluppo a un livello non ottimo ma
decente, perché qualsiasi Paese poteva diventare il teatro della
rivalità USA-URSS. D'altra parte i Paesi dell'OCDE non potevano
fare meno bene dei Paesi socialisti nel campo della protezione
sociale dei propri cittadini. Ho sempre trovato il sistema sovietico
mostruoso, ma bisogna riconoscere che la sua esistenza costringeva a
prendere sul serio il Terzo Mondo.
Oggi non è più così. Un Paese
povero e oscuro come la Somalia - altrevolte scena di combattimento tra
le super-potenze - è ridiventato semplicemente un Paese povero e
oscuro. Non è il caso di deplorare la riduzione regolare dell'Aiuto
Pubblico allo Sviluppo. Questo declino non fa che riflettere questo
stato di fatto politico. Ci si occupa solo del "Sud utile".
Oggi si può attaccare apertamente i sistemi di protezione sociale
occidentali - e non si esita a farlo. Il Welfare State è minacciato da
tutte le parti.
Invece di parlare astrattamente,
possiamo cercare di dare un'immagine alla globalizzazione di cui parlo:
l'incantevole stazione di sci di Davos, dove si ritrovano ogni inverno,
nel quadro del World Economic Forum, i padroni dell'Universo, cioè gli
amministratori delegati delle più grandi multinazionali con qualche
Capo di Stato e altri "opinion leaders" - o presunti tali.
Poche migliaia di signori - con una spolverata di dame - condividono
nell'insieme dei valori e credo, una "Weltanschauung", una
"World wiew", che descriverò rapidamente e perciò in modo un
po' sommario.
Che cosa pensano, che cosa
vogliono quelli di Davos?
E' evidente che per un
imprenditore il profitto è al di sopra di tutte le altre
considerazioni. E ciò che gli conferisce potere. Ma al di là di questa
evidenza, quelli di Davos credono:
-
nella concorrenza come valore
centrale. E' cosa buona e giusta che tutti - persone, imprese, Paesi
- siano in concorrenza con tutti, perché questa lotta porterà alla
migliore allocazione delle risorse - fisiche, finanziarie, umane,
ecc.
-
nella
"deregulation". E' un'altra parola-trappola. La
deregulation non si applica che allo Stato, che deve idealmente
rinunciare alla maggior parte delle sue prerogative e funzioni,
salvo che nel campo giudiziario, della polizia e della difesa. In
effetti "regolamentazioni", nuove regole, sono create
tutti i giorni, la questione è sapere chi le elabora, per quale
scopo e a beneficio di chi.
-
Nella privatizzazione. Fa
parte della deregulation. Lo Stato non deve occuparsi di fornire
prodotti o servizi essenziali alla popolazione, e deve cedere queste
attività alle imprese private.
-
Nell'accesso senza restrizioni
alle risorse naturali. Il capitale naturale non è visto come
equivalente al capitale finanziario, perciò viene "speso"
come un reddito.
-
Nell'esternalizzazione dei
costi. Perdonate il gergo da economisti, questa parola vuole dire
semplicemente che l'insieme della società deve pagare tutti i costi
sociali, sanitari, i danni ambientali, ecc., che sono prodotti dalle
attività dell'impresa privata. Al contrario, è considerato normale
che l'impresa privata approfitti dei servizi forniti grazie alle
imposte pagate dall'insieme della società. Così il suo personale
si è formato grazie ai sistemi educativi, è trasportato sui luoghi
di lavoro grazie ai treni o alle strade, curato se colpito da
incidenti o malattie del lavoro, e così via.
-
In una fiscalità minima. Per
il consenso "Davos", nessuna imposta è buona, salvo che
venga pagata dalle famiglie, dai dipendenti, dai consumatori. In
compenso, l'impresa deve profittare di condizioni fiscali
eccezionali, e arriva spesso a imporli come prezzo della sua
installazione in questa o quella regione. E' ugualmente normale che
l'impresa riceva sovvenzioni, protezioni e assistenza dallo Stato,
ma ogni misura di assistenza o di protezione per l'insieme della
popolazione è per definizione uno sperpero, o troppo costosa.
-
Nella libertà
dell'investimento. Il capitale deve essere libero di circolare, di
andare e venire dove vuole, quando vuole, senza restrizioni;
principio che si applica alle merci come alla libertà del
commercio. Ogni protezione dei gruppi o settori vulnerabili
(agricoltori, industrie nascenti) è etichettato con l'anatema di
"protezionismo". Eppure è attraverso il
"protezionismo" selettivo che il Giappone e la Corea si
sono sviluppate da 50 anni, per non parlare degli Stati Uniti nel
19° secolo.
-
Nell'uniformità culturale. E'
preferibile poter vendere MacDo, Coca-Cola o scarpe Nike in tutto il
mondo senza preoccuparsi delle preferenze nazionali o delle
minoranze.
-
Nell'assenza di trasparenza e
responsabilità. L'impresa deve rendere conto solo ai suoi
azionisti. Non deve nulla ai suoi dipendenti, fornitori, alla
comunità o alla Nazione in cui si trova.
Da questo quadro emerge
chiaramente che per l'ideologia di Davos la democrazia è largamente
superflua. Questa ideologia non cessa di proclamare che la crescita
economica includerà tutti alla fine, ma nell'attesa, è necessario che
i popoli accettino sacrifici. Bisogna avere fede, accettare e
sottomettersi. La globalizzazione è inevitabile, irreversibile, lo
stato naturale dell'umanità. Tutto questo assomiglia molto più a una
dottrina religiosa che a un pensiero razionale.
Se questo modello neoliberale
trionfa, la grande questione della politica non sarà "Chi governa
chi?" e nemmeno "Chi riceve quale parte della torta?". Da
cinquant'anni, queste due questioni sono al centro della politica. Il
mondo sta cambiando a causa della globalizzazione, e perciò la politica
del 21° secolo dovrà occuparsi di una questione altrimenti seria:
"Chi avrà il diritto di sopravvivere? Chi non serve economicamente
a nulla e quindi non ha più il diritto di vivere?" Ora, quali sono
le conseguenze reali, concrete della mondializzazione? Io ne vedo almeno
tre:
-
La globalizzazione trasferisce
immancabilmente la ricchezza dal basso verso l'alto della società.
Il 20% più ricco dell'umanità, o di una Nazione particolare,
grossomodo, approfitta della globalizzazione. Più si è in alto
nella piramide sociale o sulla scala dello sviluppo economico, più
se ne approfitta. L'80% restante perde, e più si trova in basso
nella piramide, o scala dello sviluppo, più perde. Non c'è da
stupirsi se la ricchezza sia attirata verso l'alto, perché il
capitale sfugge sempre più all'imposizione fiscale, e poi l'effetto
delle politiche neoliberali è sempre quello di remunerare il
capitale meglio del lavoro. Ogni volta che c'è una crisi
finanziaria, migliaia di piccole e medie imprese falliscono, la
disoccupazione aumenta, e il prodotto di lunghi anni di lavoro - le
imprese - è svenduto a prezzi da miseria. Conoscete come me le
statistiche sulle disparità Nord-Sud: non hanno cessato di
aumentare. I dati del Rapporto sullo Sviluppo Umano del 1998 sono
particolarmente osceni. Per esempio, le 225 più grosse fortune del
mondo totalizzano alcune migliaia di miliardi di dollari, cioè
l'equivalente del reddito annuale del 42% della popolazione mondiale
più povera - si tratta di circa 2,5 miliardi di dollari. Le tre
persone più ricche del mondo hanno una fortuna superiore al PIL
totale dei 48 Paesi più poveri del mondo. Le 84 maggiori fortune
superano il Prodotto Nazionale Lordo della Cina, cioè di 1,2
miliardi di abitanti. E così via: c'è un limite alla povertà, ed
è la morte, mentre non esiste alcun margine per la ricchezza. Non
serve a niente dimostrare, come si può facilmente fare, che con
solo il 5% delle 225 fortune più importanti del mondo, si potrebbe
realizzare - e mantenere - l'accesso alla sanità, all'educazione, a
un'alimentazione adeguata e all'acqua potabile. E' forse
interessante moralmente, ma non ha per il momento alcuna portata
economica o politica.
-
La globalizzazione si
accompagna a un deficit democratico che continua ad aumentare. Vi ho
detto che la "deregulation" è una parola-trappola: è
perché le regole sono sempre più scritte da istanze non
democratiche. Le più importanti tra queste sono la Banca Mondiale,
il Fondo Monetario Internazionale, l'Organizzazione Mondiale del
Commercio. Ultimamente si è cercato di aggiungere a questi
strumenti di regolazione un Accordo Multilaterale sugli Investimenti
(AMI), che fortunatamente, grazie alla vigilanza dei cittadini, è
stato battuto all'OCDE. Ma ritornerà certamente in un'altra forma,
probabilmente all'Organizzazione Mondiale del Commercio.
-
La globalizzazione crea più
perdenti che vincenti. La libertà assoluta del capitale fa sì che
oggi la metà della popolazione messicana sia finita sotto la soglia
della povertà. La malnutrizione e le carestie stanno ritornando in
modo massiccio in Asia, specialmente in Indonesia, Corea e in
Thailandia. C'è un'ondata di suicidi - detti "suicidi FMI"
- dove gli operai disoccupati si uccidono insiemi alle loro mogli e
ai loro figli. In Russia, la speranza di vita è diminuita di 7
anni, fatto senza precedenti nel 20° secolo.
Le imprese multinazionali, per le
quali le regole della globalizzazione sono tagliate su misura, non
smettono di licenziare il loro personale. Se voi paragonate l'impiego
delle prime 100 multinazionali del mondo nel 1993 e nel 1996,
constaterete che il fatturato è aumentato di un quarto, e questa
ricchezza è stata prodotta con lo 0,5% di personale in meno. Queste
prime 100 multinazionali rappresentano più del 16% del Prodotto
Mondiale Lordo, ma impiegano meno di 12 milioni di persone.
I 2/3 almeno di tutti gli
investimenti sono consacrati ad acquistare altre imprese o alle fusioni,
che si traducono molto spesso con riduzioni dell'occupazione. E' inutile
contare su queste imprese per fornire un livello di vita decente a tutti
quelli che vogliono entrare nell'economia mondiale. In nessun Paese,
salvo forse Singapore o Hong Kong, le multinazionali forniscono più
dell'1% degli impieghi. E non si può generalizzare al resto del pianeta
l'esperienza dei primi dragoni - Corea, Taiwan, Singapore, Hong Kong -
con una popolazione totale di 65 milioni di abitanti.
Avete già capito che il contesto
della globalizzazione, dove tutti sono in concorrenza con tutti, non è
favorevole alla pratica della solidarietà Nord-Sud. La riduzione
accelerata dell'Aiuto Pubblico allo Sviluppo, nel Nord sempre più
persone sono alle prese con lavori temporanei, precarietà e
disoccupazione. L'avvenire appare spesso incerto e senza sbocchi. A
causa di questo fatto possono avere meno tempo e soldi per le attività
di solidarietà, o anche di simpatia per gli abitanti del Sud.
Bisogna ben ammettere che i Paesi
del Sud sono stati fatti a pezzi, atomizzati, soprattutto attraverso il
debito e l'aggiustamento. Nessuna organizzazione collettiva può più
portare la loro voce collettiva; il Movimento dei Non Allineati o il
Gruppo dei 77 non sono più che dei vaghi souvenir. Non bisogna cullarsi
nelle illusioni: il sistema della globalizzazione è stato concepito e
organizzato per il profitto dei meglio piazzati del Nord e del Sud, non
dimenticherà improvvisamente l'interesse di queste élite per
preoccuparsi della maggioranza povera.
Vi ho dato molte
cattive notizie perché la realtà non è brillante, ora vorrei darvene
qualcuna buona. Prima di tutto, la crisi che colpisce da qualche anno
diversi Paesi dimostra bene che quelli che pretendono essere i gestori
dell'economia mondiale si sono completamente sbagliati. Quelli di Davos
hanno gravi lacune. Hanno paura, non sanno quello che stanno facendo,
non controllano la situazione. Ditelo come volete - questo apre lo
spazio per il dibatto e la sfida. Alla fine il muro dell'arroganza è
stato superato, e si può parlare in maniera diversa di organizzare
l'economia. E' uno spazio politico che s'apre e che bisogna occupare
subito. Altra buona notizia, c'è un movimento sul tema del debito.
Anche il FMI ammette oggi in privato che il debito dei Paesi più poveri
non sarà mai ripagato e che questo non ha d'altra parte alcuna
importanza per l'economia mondiale. Il dossier del debito è stato
ripreso, in vista della fine del millennio, dalla campagna Jubilee 2000
in moltissimi Stati. Incoraggio i volontari a guardare da vicino, nei
Paesi dove risiedono, qual è l'impatto concreto del debito e a
comunicare queste informazioni alle campagne del Nord. Bisogna anche
portare nel Sud le notizie di ciò che si sta facendo al Nord, e legare
al massimo le azioni da una parte e dall'altra. I volontari possono
utilizzare la loro posizione di conoscitori del Nord per spiegare alle
persone, nel Paese dove risiedono, perché il debito li impoverisce
ancor più, studiare con loro la situazione concreta locale, e partire
da là per dare gli strumenti d'analisi, permettendo alle persone di
comprendere più in profondità la loro situazione. Ma prudenza anche:
le ONG, del Nord e del Sud, sono sempre più utilizzate nei Paesi
indebitati per incollare i cocci, e riparare i danni dell'aggiustamento
strutturale. Bisognerebbe almeno documentare l'uso che si fa di voi.
Anche se accettate d'essere sfruttati, di rimediare in qualche modo alle
politiche del FMI, fatelo almeno in conoscenza di causa e fatelo sapere.
Francamente non amo molto "l'umanitario" perché è a senso
unico. Non si può immaginare i nicaraguensi sbarcare per aiutare gli
europei a seguito di un'inondazione o di un uragano. E' naturalmente
utile avere del personale, in parte militare, specializzato nel soccorso
d'urgenza post-catastrofe, ma noi parliamo qui, credo, di solidarietà,
cioè una strada a doppio senso. Se siamo interessati alla solidarietà,
e non all'umanitario o alla carità, non vedo l'interesse di partire in
un Paese del Sud presso una comunità qualunque, a meno di poter
apportare qualcosa ai membri di questa comunità, alla quale non
avrebbero accesso altrimenti. Ma perché partire se non si sa fare
nulla? La buona volontà non basta. Se non si sa fare nulla, si rischia
al massimo di imitare, di fare, molto meno bene, quello che gli abitanti
sanno già fare perfettamente da soli. Un'altra buona notizia: si
possono vincere delle battaglie adesso, perché disponiamo delle stesse
armi dell'avversario, in particolare l'informazione. Ero coinvolta nel
movimento, in Francia e nel mondo, contro il MAI, questo trattato
scellerato che avrebbe messo un piolo nel cuore della democrazia.
Abbiamo, almeno momentaneamente, vinto. Attraverso questa lotta, ho
capito che non è affatto utopico organizzarsi a livello internazionale
su alcune preoccupazioni comuni. Quasi tutte le organizzazioni del Sud
possono ormai trovare, o farsi offrire, un equipaggiamento informatico
di base. Ed è molto redditizio politicamente. Prima, solo le
multinazionali o i governi avevano accesso a tante informazioni così
rapidamente. La guerrilla delle reti è diventata realtà. Aiutate
dunque a costruire reti. Trovate da qualche parte un computer, e
insegnate a tutti quelli che vi circondano come ci si serve di internet
e della posta elettronica, anche se avete corrente solo per due ore al
giorno, anche se la maggior parte degli abitanti non sa leggere: avranno
forse voglia di imparare o che i loro figli imparino. Bisogna avere
abbastanza rispetto delle persone per utilizzare le tecniche più
moderne. Create la vostra rete lavorando con altri volontari, prima
all'interno del Paese dove vi trovate; infine tra Paesi di una stessa
regione, infine della Terra intera. Insegnate alla gente come si possono
organizzare, collegarsi ad altri, per gestire le loro stessi reti. Il
meglio è forse cominciare con i ragazzi, perché i genitori ne siano
fieri, e abbiano voglia di poterli seguire. Ho letto in uno dei
documenti preparatori a questo seminario, che 750.000 africani diplomati
esercitano il loro mestiere all'estero; che tutti gli anni il 60% dei
laureati di medicina dell'Università di Lagoon, nel Ghana, emigrano,
subito dopo avere ottenuto la laurea, in Canada, Australia, o negli
Stati Uniti. Ecco delle persone che capiscono come funziona la
globalizzazione. Hai un pezzo di carta, ti vendi al miglior offerente,
tanto peggio se i costi per la tua scolarizzazione sono stati assunti
dal tuo Paese d'origine, tanto peggio per il tuo popolo. E poi sono
rimpiazzati da gentili volontari occidentali. E' un comportamento
vergognoso. Avendo constatato tutto questo, credo che cercherei
d'organizzare i cooperanti di tutti i Paesi per esigere che il Ghana
obblighi i suoi laureati in scienze mediche a praticare almeno 5 anni
nel proprio Paese. E così via, in altri Paesi, in altri campi.
Altrimenti niente volontari, o progetti di cooperazione. Se abbiamo
utilizzato la "condizionalità" per il debito, possiamo
utilizzarla anche contro i guasti della globalizzazione. Non comprendo
il rifiuto di giudicare le élite dei Paesi poveri, o allora è del
razzismo al contrario. Non concepisco nemmeno i "valori
asiatici" - o altri - che farebbero dire a un operaio - o a
un'operaia - che ha voglia di lavorare 12 ore al giorno in condizioni
spaventose per far piacere al padrone o a un dittatore del suo Paese. Il
volontario ha il dovere di far conoscere queste condizioni, far sentire
la voce di quelli che i dirigenti dei loro Paesi - o dei nostri -
vogliono soffocare. Ma c'è un'altra vergogna: il ministro
dell'educazione di un Paese dell'America Latina mi ha detto che una
decina d'anni fa, di tutti gli studenti occidentali che venivano per
fare ricerche nel suo Paese, meno di 1 su 10 inviava un esemplare della
sua tesi a un'università o a una biblioteca del suo Paese. Non è
evidentemente questo, la sola maniera di sfruttare le persone e le loro
conoscenze per il proprio profitto. Se andassi nel Sud, cercherei di
aiutare le genti a capire che le loro conoscenze sono utili e hanno un
valore universale. Le multinazionali oggi strappano le loro conoscenze
agricole, mediche o entomologiche, e bisogna spiegare alle persone che
devono fare attenzione a rivelare saperi che valgono oro. Ecco, ho
finito per fare ciò che mi ero promesso di non fare, cioè insegnarvi
il mestiere. Per concludere, vorrei dire 2 parole sulla maniera in cui
concepisco il mio mestiere, perché come volontari, praticherete tutti,
in una maniera o nell'altra, il mestiere di ricercatore. Un ricercatore
è qualcuno che cerca di comprendere i fenomeni, che scrive e che parla
in pubblico. A cosa serve? Se fa il proprio mestiere bene, credo che
cerchi di produrre e diffondere conoscenze e analisi utili al movimento
sociale, per aiutare a cambiare strutture ingiuste. Se dipendesse da me,
obbligherei tutti i volontari a passare il doppio del tempo nel loro
Paese d'origine che nei Paesi del Sud, per fare, ad esempio,
dell'educazione e delle attività di lobbying contro il debito, o a
favore del commercio equo e solidale nei supermercati, o ricerche sui
trattati bilaterali d'investimento - tutto quello che si vuole -, ma
qualcosa d'utile per quelli presso i quali abbiamo vissuto, e che non
possono fare loro stessi. Se si globalizza, allora globalizziamo tutto:
le conoscenze e le reti d'informazioni e i diritti umani. Il volontario
è un ambasciatore, ma di un genere particolare, perché deve
disturbare, criticare, deve rifiutare le strutture ingiuste non
solamente nei Paesi dove si reca ma anche nel suo, e sul piano
internazionale. Deve prima di tutto lavorare tutti i giorni, con tutte
le sue forze, perché non ci sia più bisogno di volontari.
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